giovedì 2 febbraio 2012

Micia

(di Matteo Rossini)
Eri nata un giorno d'agosto del 1995 (noi ti abbiamo sempre festeggiato il 10) ma io ti avevo conosciuta solo nel 1997, insieme a Maria Vittoria. Te ne sei andata così, all'improvviso, alle prime ore di uno stupido 16 novembre del 2009.

Maria Vittoria ti aveva scelto perchè diceva fossi la più brutta della tua cucciolata e temeva che nessuno t'avrebbe adottato. Io ho sempre pensato che fossi la gatta più bella che avessi mai visto. Quando vi conosceste, tu e Maria Vittoria, lei aveva quindici anni e tu già un bel caratterino. Ti aveva chiamata De La Ray (come un tale Lothar, personaggio di chissà quale romanzo), ma tutti ti chiamavano semplicemente Micia, o Ratto o Toporatto. Giovedì scorso ti eri fatta male ad una zampina. "Stupida Gatta", avevo pensato. "Lo sai che non sei più una gattina, hai una certa età: mettersi a saltare così... ti ha inseguito il Pelosetto? O la Micetta?", ti avevo poi rimbrottato.

A dire il vero, quando quella sera, parcheggiando l'auto sotto casa, avevo visto la luce della tua stanza accesa e subito dopo Maria Vittoria che mi chiamava sul cellulare, temetti subito per la tua salute, chissà perché. Maria Vittoria poi però mi tranquillizzò: ti eri lussata la zampina e il veterinario ti stava steccando. Tornata a casa, ti preparammo così una bella cuccia in camera, con la tua gabbietta, un lenzuolo di flanella e la coperta di pile che ti piaceva tanto. Avevamo messo anche acqua e crocchini ben vicino, così che non ti disturbassi troppo. Quella sera la Micetta dormì con te, tenendoti calda, e non mi sembrava affatto che la compagnia ti fosse poi spiaciuta più di tanto.

"Stupida Gatta", continuavo a pensare l'indomani, vedendoti saltare sui mobili pur col tuo tutore, o sentendoti andare in giro col rumore ritmico di un personaggio di Stevenson. Sabato eri però stranamente buona. Ti facevi trovare buttata di qua e di là per casa. Io credevo facessi la scena e ti davo un po' fastidio, fino a che alla fine non protestavi energicamente: prima muovendoti le zampe, poi grattandoti la pancia ed infine infilandoti un dito nell'orecchio: "Mià!". "E allora non fare le scene!". Ti sentivo fredda ma mi preoccupavo solo che non riprendessi la tosse: "Guarda che se per fare le scenate ti becchi la tosse, questo giro lo sciroppo te lo prendi da sola!". Quella sera noi uscimmo con amici. Non ricordo dove dormisti tu.

Domenica non avevi proprio voglia e, giunta l'ora di cena, Maria Vittoria decise di coccolarti in una maniera speciale: aprì una scatoletta di tonno al naturale e si mise sul letto con te in grembo. Lei, per farti mangiare, ti teneva la ciotola proprio sotto il naso. Io pensavo che eri la gatta più paracula dell'universo. All'improvviso però la voce di Maria Vittoria si fece tremante: "Micia? Cosa c'hai Micia?". Io non capivo che cosa avesse visto o sentito: diceva solo che serravi le mascelle e che questo non era un bene. Decisi subito di portarti da veterinario, fosse solo per tranquillizzare Maria Vittoria che sicuramente non era nulla, seppure un po' scocciato per i 50 euro che si sarebbe preso per la chiamata "fuori orario".

Maria Vittoria ti ripose amorevolmente nella tua gabbietta, tenendola poi tutto il tempo in braccio quasi a non volersene staccare. Mentre guidavo ti sentivo protestare e volevo convincermi che fosse tutto sommato un buon segno: non t'era mai piaciuto andare in macchina! Il veterinario ci raggelò però poco dopo: "La situazione è molto seria, ha una grave ipotermia, le pupille sono dilatate, i muscoli sono deperiti, lo stato è precomatoso...". Oddìo... che gelo che scivolò giù per le mie vene, trasformandosi poi in calore allo stomaco, su fino alle guance e agli occhi. Non c'era tempo da aspettare, dovevi andare in terapia d'urgenza. Maria Vittoria tratteneva ormai a stento le lacrime, mentre aiutava il veterinario a riporti nella tua gabbietta. Lasciasti andare la tua testolina, mentre ti sollevavano: non lo scorderò mai. Maria Vittoria accarezzò un'ultima volta la tua zampina, mentre ti portavano via. Al veterinario che ci diceva "vi aggiorneremo tra 30, 45 minuti... se volete andare a casa...", io risposi per entrambi "Aspettiamo qui!".

Mentre consumavamo sigarette una dietro l'altra, Maria Vittoria singhiozzava: "Me la devono salvare, me la devono ridare tutta intera... ho passato metà della mia vita con lei!". Io pregavo, sussurravo a quel Dio che non mi sente mai, nel migliore dei modi che conoscevo, di salvarti - se fosse stato nei suoi piani - o che perlomeno tutto questo durasse il meno possibile.

Passata oramai quasi un'ora, il dottore ci raggiunse. Spiegò cosa stavano facendo, che la situazione era grave e che ora potevamo solo aspettare. "Vi chiamo se c'è un peggioramento, andate a casa...". Ora penso che ci aggrappammo, pur senza crederci, a quella tenue speranza per convincerci a rincasare, non potendo comunque fare nulla in clinica. Doveva essere mezza notte e mezza di quello stupido lunedì 16 novembre, quando - tornati a casa - ci accoccolammo sul divano, con una camomilla e i cellulari allineati sul tavolinetto.

Cominciammo ad attendere, guardando di tanto in tanto l'orologio, mentre la micetta non ci dava tregua: voleva a tutti i costi prendersi le coccole saltellando dalla spalla di uno a quella dell'altro, come proprio dei Thai. L'una di notte era passata da sette minuti, quando vidi lo schermo del cellulare illuminarsi: "Numero Privato". Ero pronto, ero ancora vestito e sarei corso lì da te in un attimo ma... "Purtroppo devo darvi una brutta notizia: la Micia non ce l'ha fatta...". Chiesi compostamente se fossimo dovuti egualmente tornare subito in clinica. "Assimilate pure la notizia con calma, ci vediamo domani, dopo le 10". "Va bene dottore, grazie. Ci vediamo domani, dopo le 10". Trentasette secondi esatti: un'eternità!

Chiusi il telefono e feci per girare la testa verso Maria Vittoria che ancora tratteneva il respiro, ma non ce la feci ad incrociare il suo sguardo. Scoppiai in un pianto furioso: ringhiavo e digrignavo i denti, avrei spaccato tutto! "Non è possibile, non è vero!" continuavo a ripetermi quasi andando in iperventilazione! La Micetta allora smise di fare le fusa e si acciambellò in un angolo del divano, il Pelosetto si rintanò nel suo buco sull'albero arrampica-gatti.

Maria Vittoria e io...

Sai, Micia? Quella è stata la notte più lunga della mia vita. Ho avuto notti insonni, ho visto cose terribili e ho anche sofferto tanto, ma non ho mai provato un dolore così grande, un vuoto così orribile e tremendo. Il senso di impotenza alimentato dal dolore mi riempiva di rabbia: avrei voluto poter fare qualcosa, qualsiasi cosa... e invece riuscivo solo a disperarmi, scusandomi tra i singhiozzi con Maria Vittoria per non esserle affatto di conforto. Non so come poté passare quella notte... tra lacrime e sigarette, sino a che un dormiveglia, sul fare dell'alba ci prese entrambi.

Mentre la nebbia del mattino saliva, allora ti sognai. Sognai che correvi lungo il corridoio sino alla porta d'ingresso, con la tua classica frenesia notturna e la tua eterna voglia di andare oltre le porte chiuse, sino ad arrestarti con gli occhi spalancati, di fronte al portone sbarrato. Allora io gridavo a Maria Vittoria: "Guarda c'è la Gatta, è tornata!", ma lei faceva appena in tempo ad affacciarsi, prima che tu facessi dietro-front e io ti corressi dietro, verso la tua stanza, verso il pouf che ti piaceva tanto. Pensai che non saresti potuta scappare di lì e finalmente ti avrei ripresa. Mi tuffai nella stanza subito dopo dietro di te, ma eri svanita. Eri finalmente riuscita ad andare oltre quella porta chiusa.

Fatta l'alba e giunto infine mestamente il giorno, ci recammo dal veterinario: per sentire di cosa te ne eri andata, se c'era da preoccuparsi per gli altri gatti, decidere dello "smaltimento" del tuo corpo (avevo offerto a Maria Vittoria di seppelirlo nel giardino dei miei, ma lei che è sempre stata coerente mi aveva risposto: "E perchè? Non c'è nulla li dentro..."), recuperare la tua gabbietta...

Ecco: portare verso la macchina la tua gabbietta oramai vuota fu davvero la parte peggiore. Maria Vittoria passò il resto della giornata abbracciata alla coperta di pile che ti piaceva tanto, nonostante l'odore pungente che vi avevi lasciato sopra. C'era un ciuffo del tuo bel mantello a squame di tartaruga, di buona gatta europea, e Maria Vittoria continuava ad accarezzarlo.

Quando infine la sera, dopo essere tornati un'ennesima volta dal veterinario per riceve legittime assicurazioni circa il fastidioso raffreddore del Pelosetto, ci decidemmo a mettere da lavare la tua copertina di pile, avevamo già messo da parte il tuo ciuffetto di peli. Insieme ad esso e ad un paio di crocchini trovati nella gabbietta, avevamo deciso di conservare anche un'unghietta che avevi lasciato sul tuo pouf: stupida Gatta, proprio non ce la facevi a non fartele là sopra, eh?

Sai, Micia? Mi ero definitivamente innamorato di te quando avevi deciso, dopo una lunga concorrenza per Maria Vittoria, che in fin dei conti anche io avrei potuto essere il tuo umano domestico. Credo che l'aver passato tanti mesi da soli io e te, mentre Maria Vittoria a Fano preparava il nostro ritorno a casa, ci avvicinò allora più di ogni altra esperienza: mi avevi accolto! I vuoto che ci hai lasciato dentro è enorme e nessun altro gatto potrà mai colmarlo. Non è quindi un dolore che passerà, solo uno a cui ci potremo abituare. Gli altri due gatti si danno un gran da fare in attività inutili e sbagliate, ma la casa è così silenziosa e triste senza di te. Il fatto è che tu eri ovunque!

Acciambellata tra me e Maria Vittoria brontolavi quando mi alzavo per andare a fare il caffè, ma ti prendevi le prime coccole del mattino quando poi mi reinfilavo sotto le coperte con la mia tazzona fumante. Mi borbottavi dalla lavatrice mentre facevo la barba per andare poi davanti alla porta del bagno di Maria Vittoria a protestare perché la trovavi chiusa. Correvi per il corridoio nell'andirivieni del mattino inseguita dal Pelosetto che ogni tanto riusciva pure a prenderti. Venivi a salutarci fino al portone e ci aspettavi poi lì dietro quando tornavamo, magari tentando di scappare verso la soffitta se se ne fosse presentata l'opportunità.

Ti arrampicavi sulla spalla di Maria Vittoria, magari mentre lei tentava di lavorare al computer, in attesa che tornassi a casa anche io e quando poi infine arrivavo cominciavi a raccontarmi la tua giornata e a rimproverarmi della prolungata assenza. Mi guardavi mentre recuperavo i vestiti di casa, ancora caldi della tua fresca ronfata, e smettevo quelli del lavoro. Ti mettevi sul tavolo della cucina mentre preparavamo la cena in attesa di rimediare - con le buone o le cattive - qualche prelibatezza riservata a te e a te soltanto, salvo poi tentare qualche furto quando portavamo i piatti in sala; ti sistemavi sulla mia pancia dopo cena e mi guardavi con i tuoi occhioni giganti mentre guardavo un po' di tv; ti godevi i posti caldi lasciati sul divano salvo poi raggiungerci infine nel letto sino a che una nuova giornata sarebbe cominciata.

La prima mattina senza di te ho pensato che ora non ci sarebbero più stati giorni felici: senza il tuo continuo parlottare, le tue fusa discrete, il tuo accogliere e valutare ogni ospite, i tuoi rotolini al primo raggio di sole. Credo che torneranno giorni felici, che mi abituerò a sopportare la tua assenza. Ma credo anche che passerò il resto della mia vita nell'attesa di reincontrarti: perché più di ogni religione e di ogni dio, tu mi hai insegnato che davvero c'è molto più di quanto vediamo, che non è tutto qui. Quando sentivi con anche dieci minuti d'anticipo che Maria Vittoria stava tornando a casa e ti mettevi ad attenderla all'ingresso, o quando sbarravi gli occhi verso un punto vuoto della stanza per poi scappare via terrorizzata, o quando capivi subito se eravamo tristi o stavamo poco bene.

Avrei voluto che tu un giorno potessi vedere i nostri figli e credo che, in un qualche modo, quel giorno sarai a fianco alla culla, ad annusare socchiudendo gli occhi col tuo solito fare curioso. Credo che mi guarderai e mormomando appena approverai, assicurandomi che veglierai su di loro. Ho pensato molto, in questo poco tempo. Ho tentato di gestire la cosa come meglio so fare: razionalizzando e scrivendo. Ho tentato ad esempio di capire se avessi potuto accorgermi di sintomi rivelatori. Bevevi tanto, ma credevo fossero i crocchini diuretici anti-struvite.

Vomitavi spesso, ma credevo fosse dovuto alla tua maledetta ossessione per i rubinetti aperti, sotto i quali passavi minuti e minuti ora a leccare l'acqua ora fare osservazioni scientifiche sul formarsi delle bollicine (avevamo disseminato ogni lavandino di una ciotola da riempire al momento, per evitare di sprecare acqua: lunedì sera le ho tolte tutte, dato che nessun'altro gatto di casa ha la tua stessa passione per l'acqua corrente). Ieri mi sono documentato: forse la fissa che tanto ti rimproveravo era un sintomo di un linfosarcoma.

Ho continuato a pensare. Non avrei potuto percepire le diminuzioni delle masse muscolari: piccoli cambiamenti protratti nel tempo divengono impercettibili al cervello umano... e poi tu hai sempre avuto la pellle di un gatto più grande! La lussazione della zampina era una conseguenza del ridotto tono muscolare, ma non ci abbiamo dato peso, dato che già in passato ti era successo di slogarti saltando. La tua passione per l'acqua corrente non mi ha fatto percepire l'aumento della sete e credevo vomitassi perché soffiavi al Pelosetto dopo aver mangiato o bevuto.

Lo strano atteggiamento che avevi sabato pensavo fosse una delle ripicche che ti erano solite. Avevo però da tempo una presentimento nefasto e forse avrei dovuto dargli ascolto. Forse. O forse è stato meglio così, forse era quello che tu pure volevi. Non hai mai dato nulla a vedere, non ci hai mai arrecato disturbo. Ci hai regalato felicità fino a che hai potuto, sopportando e attendendo che un nuovo gatto entrasse in casa. Quando è arrivata Minù, la Micetta, non sei stata scontrosa come eri stata col Pelosetto. L'hai annusata, l'hai squadrata. L'hai tollerata e l'hai messa alla prova. Un giorno ti ho visto mentre sembrava - col senno del poi - passassi le consegne ai tuoi due compagni pelosi.

Quando hai reputato fosse il momento, hai smesso di combattere e ti sei lasciata andare. Senza disturbare. Hai passato le tue ultime ore in serenità, con noi, mangiando tonno. Ora so che quando il veterinario ti ha portata via e ho visto che lasciavi andare la tua testolina, già guardavi oltre, a una luce sotto il calore della quale potrai continuare a fare i rotolini, sino a che infine non ci ritroveremo.

Ciao Micia: tu sei la micia più bella!

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