mercoledì 24 novembre 2010

Mi piace vivere


"Mi sono vista dall’alto mentre ero sul letto in coma", così mi ha detto un’amica, che in un altro momento della sua confessione ha aggiunto: "Ho incontrato mia madre e mia nonna. Nonna era giovane, come non l’avevo mai vista, ma l’ho riconosciuta. Mamma mi ha detto che non poteva ancora venire da me". Ci credo a quello che mi ha detto l’amica. Di testimonianze come queste ne ho avute altre due o tre. Sono anche studiate da quella categoria di medici non presuntuosi, che ritengono che ogni esperienza vada studiata per quella che è, con curiosità.

Quello che le ha detto la mamma è chiarissimo. In primo luogo, è chiaro che non era ancora il suo momento di morire; poi – ancora più chiaro – sarà lei, la mamma, che l’andrà a prendere quando sarà il momento. Sono tante le testimonianze che ci dicono questo. Persone che vivono una esperienza di pre-morte e la raccontano a noi, che siamo ancora viventi. La cosa, quindi, non mi meraviglia. Così come non mi meraviglia quello che mi ha detto un’altra amica: "Quando mi sono lanciata dal quinto piano perché volevo morire, mi sono sentita prendere in braccio". Si fratturò femore e bacino. Ora è viva.

Io non ci ho mai provato a darmi la morte, anche se in qualche momento di depressione il pensiero si è avvicinato, ma sono stato capace di svicolare in tempo. Mi piace vivere. Almeno per il momento, mi piace vivere. Mi piace la vita con quei suoi momenti di felicità e di tristezza, di euforia e di malinconia. Mi piace così com’è, come me l’ha data nostro Signore. "Chi vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua". Accidenti, che parole formidabili ci dice nostro Signore!

Rinnegare me stesso. La mia vita. Il mio essere. Quello che sono e sono stato. E poi prendere la croce, la croce di ogni giorno, quella che ognuno di noi si lamenta di avere. La croce da portare con sé è quella che ognuno merita ogni giorno.

Ma sai che ti dico? Quasi quasi la mia croce me la piglio e me la porto appresso sulle spalle tutti i giorni. Poi si vedrà…

martedì 9 novembre 2010

Smart


Sul Grande Raccordo Anulare (che da un po’ di tempo è diventato autostrada, non a pagamento) sfrecciano a 130 chilometri all’ora; io vado a 90-100. Se mi trovo in fila con la mia macchina, ce n’è sempre una che mi sorpassa a sinistra o a destra. Quando parcheggia lo fa di traverso. Chi la guida è palesemente più furbo di me; a lui tutto è concesso; o meglio, tutto si auto-concede, un po’ come fanno gli scooteristi, per i quali il codice della strada si direbbe che sia un optional da rispettare quando se ne ha voglia.

"E’ mai possibile – mi chiedo – che tutti quelli che guidano una Smart siano così tanto più furbi di me? E più furbi di tanti altri cittadini automobilisti che rispettano le code, i semafori, le precedenze e i limiti di velocità? C’è qualcosa che li differenzia in quanto tali o solo per il fatto che guidano una Smart?". La mia conclusione – personalissima – è che è la Smart a farli differenti. Se poi desidero approfondirne il motivo, direi che è una specie di complesso di inferiorità. Come avveniva per la Golf GTD.

Gli anni Settanta cominciarono per la Volkswagen con una forte crisi finanziaria. Aveva in linea in pratica un solo modello: il Maggiolino, affiancato con qualche piccola modifica di carrozzeria e aumento di cilindrata (da 1.200 a 1.300) dal Maggiolone. A poco era valsa l’introduzione di uno sfortunato modello a trazione sempre posteriore, che avrebbe dovuto essere l’erede del Maggiolino: la 411/412, rispettivamente di 1.500 e 1.600 di cilindrata.

Così a Wolsburg ebbero l’idea geniale: cambiare tutto. La rivoluzione fu affidata alla magica matita di Giorgetto Giugiaro e nel 1974 nacque la Golf. La trazione posteriore fu trasferita all’asse anteriore, migliorando guidabilità, tenuta di strada e abitabilità. La linea abbandonò la classicissima forma a uovo e adottò linee decise e spigolose. Fu subito un successo. Dalla matita di Giugiaro era già uscita la Passat l’anno precedente e seguirono la Scirocco e la Polo.

Ma il colpo di genio vero e proprio fu adattare il motore a benzina di 1.500 di cilindrata (poi diventato 1.600) al gasolio. Consumi ridottissimi e velocità di punta decisamente superiore alle vecchie auto motorizzate diesel che non facevano più di 120-130 chilometri all’ora. Il botto finale fu l’inserimento della sovralimentazione mediante compressore a turbina, così come era avvenuto con la sovralimentata a benzina (GTI). Il grosso dubbio che colse tutti gli esperti fu: "Il motore diesel così piccolo resisterà o esploderà?".

Non esplose. Non solo: chi guidava la Golf GTD doveva dimostrare a chi aveva auto a benzina che andava forte come lui, o anche di più. Era il complesso d’inferiorità che aveva il possessore di un’auto a gasolio nei confronti di chi ne aveva una a benzina. Prima del fenomeno Golf GTD, le vetture a gasolio erano una scelta "economica": il gasolio costava notevolmente meno della benzina e il ciclo Diesel (accensione per compressione, gasolio) aveva un consumo specifico inferiore al ciclo Otto (accensione per scintilla, benzina). Insomma, chi aveva un’auto a gasolio, lo faceva per risparmiare ed era considerato un po’ un automobilista di serie ‘B’.

Con la Golf GTD il mondo automobilistico cambiò: chi la possedeva, non solo spendeva di meno di carburante, ma andava anche come o anche più forte di chi aveva il benzina. Qui fu la rivincita del diesel sul benzina e di chi possedeva un’auto diesel nei confronti di chi ne possedeva una a benzina. La rivincita dal complesso d’inferiorità.

Oggi vedo un parallelo tra chi una volta guidava la Golf GTD (e doveva dimostrare a chi aveva un ‘benzina’ che andava più forte di lui) e chi guida una Smart (una specie di scarrafone, che ha più del giocattolo che della macchina), il quale deve dimostrare a chi possiede un’auto ‘vera’ che non solo va più forte (il che di per sé non è vero, ma chi guida la Smart ‘pesta’ sempre l’acceleratore), ma può fare una infinità di cose più di chi possiede una macchina ingombrante.

E’ la rivincita del piccolo scarrafone-giocattolo (il cui proprietario nasce con un complesso d’inferiorità) sull’auto vera e ‘deve’ dimostrare agli altri che a lui sono consentite più cose…

…fino a quando non si ribalta sui sampietrini romani!

lunedì 8 novembre 2010

Mi manchi




C’è sempre qualcosa o qualcuno che mi manca in qualche momento della mia vità. Così, ora una volta ora l’altra, mi manca un bastone al quale appoggiarmi nei momenti in cui sto per cadere e sento il bisogno di una mano vicina che me lo porga. Mi manca la corsa, di quando me ne andavo anche con la neve per terra ed ero vestito così strano, con cuffia di lana, maglione a collo alto, pantaloncini, calzamaglia e TRX Competition dell’Adidas, che mia figlia mi diceva: "Mi sembri il grillo parlante".

Mi manca la bicicletta, il vento in faccia, il manubrio da corsa, i pneumatici tubolari, le gambe che giravano da sole e quella volta che a Civitavecchia infilai il binario del treno e mi ritrovai a terra ridendo di me e pieno di escoriazioni. Mi manca la moto; il motore con tutta la sua cavalleria tra le gambe, che se vuoi sentire il brivido della velocità solo sulla moto lo puoi provare. E le curve dopo Maranello verso l’Appennino, dove andavo per fare le pieghe e ogni tanto si trovavano le piccole lapidi di chi aveva osato troppo.

Mi manca il paracadute; quel brivido prima di saltare che fa salire i battiti del cuore e la terra che si allontana a mano a mano che l’aereo sale; poi il ‘via’, il salto, il vuoto, la calotta che si apre, il controllo calotta e il silenzio totale che ti fa sentire in un altro mondo. Mi mancano i soldati che quando mi incontravano mi salutavano sorridendo; uno, al termine del suo periodo di naja mi disse: "Il più bel periodo della mia vita".

Mi mancano il nonno, zio Vincenzo, zia Caterina, i Natali vissuti con loro e i Capodanni coi botti. A tavola si era sempre un sacco di gente ed Ernesto e Antonio se ne inventavano sempre una per ridere e far ridere, anche quando attaccarono una chewing-gum alla neo-barba di Sergio, che ne andava tanto fiero. Mi manca la casa di Napoli; non ho mai sofferto tanto freddo come in quella casa nelle serate d’inverno; eppure nel mio ricordo c’è solo il calore umano che emanava da chi la viveva.

Mi manca Sissi, cognata-sorella che ha raggiunto il Padre troppo presto. Mi manca babbo, le sue opere liriche, che se ora mi viene un dubbio non so più a chi chiedere. Le sue sfuriate. I suoi ultimi giorni, le sue ultime ore, i suoi ultimi minuti.

Mi manca sempre qualcuno o qualcosa; anche se c’è, mi manca. Le sere vuote. Vicina ma troppo lontana, mi manchi tu.

venerdì 5 novembre 2010

Patria e patriottismo


Avrei desiderato commemorare anche io questo 4 novembre, ma senza fare ricorso ai soliti discorsi ufficiali o a frasi fatte. Mi è venuta in socorso una lettura che ho appena ultimato: "Memoria e identità", di Giovanni Paolo II. Nato come libro-intervista di due vescovi polacchi a Giovanni Paolo nel 1993, da questi è stato approfondito e allungato in alcuni concetti espressi nel corso della intervista. Nella sua forma definitiva, fu presentato nel febbraio del 2005 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, poco più di un mese prima che il Grande Karol ci lasciasse per tornare al Padre. Da questo libro ho estratto i due concetti di "patria" e di "patriottismo". Come si può osservare, non sono concetti che appartengono solo ai militari, ma a tutta la popolazione di un Paese, ivi inclusi i sacerdoti. Personalmente, mi identifico appieno con le parole di Giovanni Paolo II. Leggiamo che cosa scrive.

Patria

L’espressione "patria" si collega con il concetto di "padre" (pater). La patria in un certo senso si identifica con il patrimonio, cioè con l’insieme di beni che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri padri. Significativamente molte volte si usa, in questo contesto, l’espressione "madrepatria". Per esperienza personale tutti sappiamo in quale misura la trasmissione del patrimonio spirituale si compia per mezzo delle madri. La patria dunque è l’eredità e, nello stesso tempo, è la situazione patrimoniale derivante da tale eredità; ciò riguarda anche la terra, il territorio. Ma più ancora il concetto di patria coinvolge i valori e i contenuti spirituali che compongono la cultura di una data nazione. Proprio di questo ho parlato all’Unesco il 2 giugno 1980, sottolineando il fatto che, persino quando i polacchi furono privati del territorio e la nazione fu smantellata, non venne meno in loro il senso del patrimonio spirituale, della cultura ricevuta dagli avi. Anzi, esso si sviluppò in modo straordinariamente dinamico. […]

Patriottismo

Il concetto appena svolto sul concetto di patria e sul suo legame con la paternità e con la generazione spiega in profondità il valore morale del patriottismo. Se ci si chiede quale posto occupi il patriottismo nel Decalogo, la risposta non dà luogo a titubanze: si colloca nell’ambito del quarto comandamento, il quale ci impegna a onorare il padre e la madre. E’ infatti uno di quei sentimenti che la lingua latina comprende nel termine ‘pietas’, sottolineando la valenza religiosa sottesa al rispetto e alla venerazione dovuti ai genitori. Dobbiamo venerare i genitori, perché essi rappresentano per noi Dio Creatore. Dandoci la vita, partecipano al mistero della creazione e meritano perciò una venerazione che rimanda a quella che tributiamo a Dio Creatore. Il patriottismo contiene in sé questo genere di atteggiamento interiore, dal momento che anche la patria è per ciascuno, in un modo molto vero, una madre. Il patrimonio spirituale che ci è trasmesso dalla patria ci raggiunge attraverso il padre e la madre, e fonda in noi il corrispettivo dovere della ‘pietas’. Patriotismo significa amore per tutto ciò che fa parte della patria: la sua storia, le sue tradizioni, la sua lingua, la sua stessa conformazione naturale. E' un amore che si estende anche alle opere dei connazionali e ai frutti del loro genio. Ogni pericolo che minaccia il bene grande della patria diventa occasione per una verifica di questo amore. [...]