mercoledì 25 luglio 2012

Sxiamo

Ho imparato a scrivere leggendo dalla prosa poetica di Manzoni a quella drammatica di Pirandello a quella asciutta e senza orpelli di Buzzati. Ho letto e imparato, ma ho cercato di sviluppare un 'mio' modo di scrivere, che rispecchiasse ...la mia personalità e che riuscisse a trasferire al lettore le mie emozioni. Quando andavo a scuola, però, la mia prosa non piaceva e il mio voto più frequente in italiano scritto era 5/6. Fu solo dopo molto tempo che riuscii a scrivere come dicevo io: quando cominciai a collaborare con la Gazzetta di Modena. Al secondo o terzo articolo il direttore mi chiamò e mi disse: "Cazzo, maggiore, ma lo sai che scrivi proprio bene?".

So bene che qualunque lingua è cosa viva e cambia, si trasforma: infatti, quelle che non mutano più si chiamano 'lingue morte'. Ma non è dal cambiamento della lingua italiana che sono impressionato; è piuttosto dallo scempio che se ne fa. Provo un senso di tristezza quando leggo (anche professori) che scrivono "un pò di..." oppure "qual'è il..." dimostrando di non conoscere la differenza tra una elisione e un troncamento. Per non parlare di uso delle maiuscole, minuscole, puntini di sospensione e segni di interpunzione.

Quella dei ragazzi di oggi che scrivono xké, sxiamo, xò eccetera voglio sperare che sia solo una moda che passerà e non lascerà traccia. Ma se questi credono di fare la rivoluzione contro di me 'matusa' e di spazzarmi via, sappiano che un giorno saranno spazzati via anche loro da altri giovani e non ci sarà remissione dei peccati.

Lasciatemi citare un Grande:
"Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l'unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la Morte è la migliore invenzione della Vita. E' l'agente di cambio della Vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora ‘il nuovo' siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete ‘il vecchio'e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità".
[Dal discorso di Steve Jobs ai neolaureati di Stanford, 12 giugno 2005]

venerdì 2 marzo 2012

Elettra



Giovedì primo marzo 2012. Mi sveglio alle otto e mezza, che per me è come dire all'alba. In questi ultimi mesi mi si è spostato il fuso orario: vado a letto tardi e mi sveglio tardi. Prima di tutto il caffè e, mentre aspetto che passi, mi fumo la prima sigaretta della giornata. Il micio reclama la pappa, così gliene dò in abbondanza da una scatoletta di Gourmet. Ne vuole ancora. Ancora scatoletta. Intanto passa il caffè e ne prendo una tazzina. Seconda sigaretta. Accendo il computer e scarico la posta, poi in giro per il web e Facebook.

Sono quasi le undici. Squilla il Vodafone: è Matteo. "Ciao Matteo, come va, a cosa devo il piacere della tua telefonata?". "Ti devo dire che c'è stato un piccolo cambiamento di programma: sei nonno!". "... ... ... ...". Rimango senza parole. Poi mi riprendo: "Accipicchia Matteo, che notizia, ma non scadevano i conti il 28 marzo?". "Questa mattina Maria Vittoria ha notato delle perdite, così siamo andati all'ospedale per una visita e il medico ha deciso di fare il cesareo. Ti passo Maria Vittoria".

"Ciao Pipo". "Ciao Cucciolo, come stai?". "Bene, un po' rimbambita dalla anestesia, ma bene. Non vuoi sapere come si chiama?". Il nome della bambina è stato tenuto sotto embargo per tutta la durata della gravidanza, così io non ho la minima idea di quale nome le abbiano dato. "No, voglio prima sapere come sta". "E' in incubatrice nel nido. Si chiama Elettra". "Accidenti che nome importante! Come la figlia di Guglielmo Marconi". "Beh, come figlia di un marconista...". Matteo era capitano delle Trasmissioni dell'Esercito prima di lasciare il servizio. La telefonata si conclude con un "ciao Cucciolo".

Accidenti, adesso che faccio? Che cosa si fa quando si sa di essere diventato nonno? Boh! Non ne ho esperienza: è la prima volta. Mando un sms a mio fratello e a mia sorella. Marica mi risponde subito: "Termino la conference call e ti chiamo". Romolo mi chiama più tardi e gli dico quello che so. Poco: non ho neanche chiesto quanto pesa e quanto è lunga. Me ne rendo conto quando Marica me lo chiede. Ma che ne so io delle cose che si devono sapere per fare un comunicato stampa quando si diventa nonni! Metto la notizia su Facebook e dopo poco arrivano i commenti degli amici. Mi chiama Gianfranco; stiamo un'ora al telefono.

Uffa, che cosa faccio ora? Mi vesto ed esco. Vado al bar vicino casa. Lo hanno rinnovato da poco e faccio i miei complimenti al giovane che mi serve il cornetto e il caffè. Buono questo caffè. "Fammene un altro, per favore". Prendo una stecca di sigarette. Ma visto che questo mese di marzo è cominciato tanto bene, sai che faccio? "Dammi anche due euro di Superenalotto". Attraverso la strada per andare all'alimentari. Ho bisogno dell'olio, ma il proprietario che io chiamo don Roberto riesce a vendermi anche un etto di prosciutto, un fior di latte e sei carciofi puliti.

Pranzo, o meglio tento di pranzare. Prima telefonate, poi viene Marica a rendermi una visita di congratulazioni. Finalmente pranzo, ma devo chiudere il gatto che è attirato dall'odore del prosciutto. Primo pomeriggio da nonno. Verso tardi provo a telefonare a Matteo: non risponde. Allora provo a casa dei suoi genitori, prima con-suoceri ora con-nonni: squilla e non risponde nessuno. Ansia. Provo sul telefonino di Maria Vittoria: squilla e non risponde. Ri-ansia. Finalmente mi risponde l'Angela, la madre di Matteo. "Eravamo andati all'ospedale, poi Teo e Toya li hanno fatti entrare nel nido con la bambina e noi siamo venuti via. No, non è più in incubatrice, l'hanno messa nel lettino".

Dopo cena cerco di vedere il giovane Montalbano, ma sento una specie di tensione. Chiamo un'amica che mi tranquillizza. A mezzanotte vado a letto. Penso ai due cucciolotti. Non trattengo una lacrima. "Buona notte Cucciolo di papà. Buona notte Amore di nonno".


martedì 28 febbraio 2012

Stukazz!

(di Ugo Salvetti)

Nel 1963 avevo 18 anni ed ero entrato in crisi con la scuola. Frequentavo di mala voglia il secondo ragioneria presso il Duca degli Abruzzi di Roma in via Palestro, dietro la stazione Termini. Fui invitato giustamente a trovarmi un lavoro per non essere uno sfaccendato e rischiare di incorrere in una miriade di tentazioni che mi avrebbero condotto sulla cattiva strada. A Roma, anche per i lavori più umili tipo la consegna del pane a domicilio, data volevano il milite-assolto. "Levati il peso del militare, poi ne riparliamo" mi dicevano.

Avevo uno zio acquisito che era colonnello pilota dell'Aeronautica militare, il quale mi disse che di lì a poco sarebbe uscito un bando per l'arruolamento di allievi sottufficiali piloti (ASUP) con ferma di quattro anni. Se mi avessero preso, avrei risolto parte dei miei problemi e in più avrei conseguito il brevetto di pilota militare, che non era da buttar via. A me, poi, gli aeroplani piacevano moltissimo e i piloti li consideravo dei miti!

Arruolato in aviazione, non come pilota ma come specialista elettrotecnico di bordo e strutture aeroportuali, mi trovavo nel 1965 presso la base missilistica del 66° Gruppo IT sull'Altopiano di Folgaria (Trento) e Tonezza del Cimone (Vicenza) e m'ero anche un pò gasato perché partecipavo col grado di primo aviere all'operazione "Pinguino".

Un giorno di bel sole a inizio primavera venne a farci visita un generale con sua moglie. Il generale allora 45enne era un bel signore dai modi distinti che a me ricordava un pò David Niven oppure Mandrake. Sua moglie era bellissima e affabile, a livello di Belen di oggi. Qualche maresciallo era preoccupato e per il pranzo voleva dividere i militari (ufficiali, sottufficiali e truppa) tra differenti tavoli. Il generale invece disse che per il pranzo avrebbe gradito stare assieme a tutti, in un'unica tavolata e in ordine sparso, senza dividere i gradi (in tutti si era una ventina di persone).

Io capitai accanto alla moglie del generale (non descrivo i gradevolissimi effluvi da star che emanava). Accanto al generale capitò un aviere abruzzese che svolgeva funzioni di cuoco. La giornata era molto bella, fuori la neve bianca illuminata da uno splendido sole. L'elicottero del generale era parcheggiato nell'area di lancio, come un automezzo in zona parcheggio. Con il generale, sull'elicottero erano venuti anche un maresciallo pilota nemmeno trentenne e un sergente motorista, provenienti da Padova. A un certo momento l'attenzione del generale fu richiamata dal suo contiguo commensale, l'aviere abruzzese, il quale gli disse: "Generà, hai mangiato bbuono? Sei stato bbuono? Ti sei divertito? Adesso tu te ne vai e quando non ci sei più nuie stammo a 'o friddo e se magnammo stukazz!".

Il nostro tenente, un certo Ciprian di Vicenza con funzioni di comando, sbiancò in volto e a denti stretti minacciò l'aviere di punirlo pesantemente per questa sua sortita. Il generale, molto signorilmente e con grande senso di humour, capì la situazione e con un bel sorriso stampato sulle labbra, mentre sua moglie si sbellicava dalle risate, disse che nessuno si sarebbe dovuto permettere di punire l'aviere, altrimenti avrebbe fatto i conti con lui in persona.

Il pranzo e la visita del generale proseguirono senza intoppi. E il cuoco abruzzese non fu punito. Per me fu una grande scuola di vita, di saggezza e di umanità, con buona pace per chi crede che i militari siano dei guerrafondai.

giovedì 23 febbraio 2012

'Nchia sottenè

Nel 1975 l'Esercito Italiano fu interessato da una ristrutturazione profonda che intendeva snellire la struttura e ridurre i livelli di comando per aumentarne la reattività in caso di operazioni. Furono soppresse le divisioni e i reggimenti e ai gruppi fu assegnato il livello di comando di Corpo. Nel contempo, alcuni reparti furono soppressi e, tra questi, quello dove facevo servizio io: il Terzo gruppo del 131° reggimento artiglieria corazzata "Centauro" di Novara. Io rivestivo l'incarico di sottocomandante di batteria e, con lo stesso incarico, il 25 luglio 1975 fui trasferito al Terzo gruppo dell'11° reggimento artiglieria da campagna di stanza a Vercelli, che in breve tempo cambiò la denominazione in Terzo gruppo "Pastrengo", inserito nella brigata "Goito".

Il gruppo di Vercelli in un primo tempo doveva essere soppresso e quindi non era stato più alimentato da truppa. Il personale era ridotto a una trentina tra ufficiali e sottufficiali e un centinaio di artiglieri. Dopo un paio di mesi arrivarono però 100/120 reclute da far diventare soldati: occorreva vestirli, educarli alla disciplina militare e fornire loro sia l'addestramento basico sia quello specifico del tiro di artiglieria. Non era un lavoro da poco, anche in considerazione del fatto che gran parte delle reclute non aveva alcuna voglia di fare il militare. Inoltre, circa la metà di questi proveniva dalle regioni del sud, con mentalità, usi e costumi alquanto differenti da quelli che trovavano in una unità militare dislocata al nord.

Tra i soldati ce n'erano alcuni veramente in gamba (qualcuno anche laureato), che avrebbero potuto assolvere all'obbligo della ferma anche come ufficiale di complemento. Ma il servizio sarebbe durato di più e quindi optarono per la truppa. Per me fu un periodo molto bello. Mi ambientai subito molto bene con i colleghi ufficiali e sottufficiali e il lavoro da fare con i soldati era abbondantemente alla mia portata, per cui il mio comandante di batteria si poteva anche permettere il lusso di privilegiare il suo secondo incarico di addetto agli automezzi e dedicare meno tempo alla batteria: tanto c'ero io.

Tra i soldati che giunsero con il primo contingente di reclute non ne dimenticherò mai due di loro: Pulia e Schillaci. Tutt'e due palermitani e tutt'e due cresciuti nel rione storico della Vuccirìa. Pulia era nella mia batteria, mentre Schillaci era inquadrato in un'altra. Ma stavano sempre insieme e se le due unità dovevano seguire addestramenti diversi, era difficile staccarli. Com'è usanza di un certo numero di palermitani di origini - diciamo - non nobili, avevano ambedue l'abitudine di anteporre, a qualunque frase dovessero pronunciare, 'nchia. Per cui, invece di rivolgersi a me dicendo "Signor tenente" dalla bocca gli usciva: 'nchia sottenè. Il mio collega (quello alle cui dipendenza era Schillaci) s'incazzava come una bestia. Io lo sopportavo con una certa dose di senso di umorismo, tanto sapevo che non c'era niente da fare: non sarebbero mai riusciti a pronunciare signor tenente in modo corretto.

Così, spesso, all'adunata del mattino mi rivolgevo a Pulia e gli chiedevo: "Allora, Pulia, come va?". E lui immancabilmente mi rispondeva: "'Nchia sottenè, 'nchia boijddello!". Evidentemente per lui le cose non andavano come avrebbero dovuto. In effetti non andavano diritte per niente perché sia lui sia il suo amico ne combinavano di tutti i colori, al punto che diversi colleghi li punivano chi per un motivo chi per un altro. Fino a che un giorno dovetti fare il giro dei colleghi e spiegare loro che i due ragazzi non erano indisciplinati: erano solo a-disciplinati. Cioè non conoscevano la disciplina perché nel corso della loro giovinezza non c'era stato nessuno che gliela avesse mai insegnata. Erano venuti su con una certa dose di selvatico, che però nulla toglieva alla loro indole buona. I colleghi capirono e da allora in poi li lasciarono stare.

I ragazzi, dopo i 15 mesi di ferma prevista si congedarono, ma la loro voce - specialmente quella di Pulia ('nchia sottenè 'nchia boijddello!) - continuò a risuonare nella mia mente. E risuona ancora. Io, promosso capitano, nel gennaio del 1977 fui trasferito a Civitavecchia (Roma) con l'incarico di comandante di batteria. La provenienza dei soldati era diversa e la maggior parte di loro era romana. Così da 'nchiasottenè diventai sorcapitano.

venerdì 17 febbraio 2012

Maria Concetta



Tra i volti che mi offre la televisione, sopra tutti preferisco quello di Maria Concetta Mattei, giornalista del TG-2 che conduce l'edizione delle 20.30 e anche la rubrica "Storie". Oltre a essere una bella signora dai modi educati e signorili, ha anche un modo di presentare i servizi tra i più professionali che io abbia mai avuto modo di osservare. Mai una parola fuori posto, mai la tentazione di cedere al protagonismo, mai sensazionalismi. Ascoltare lei è come leggere un dispaccio di agenzia: asciutto, senza aggettivi, senza subordinate, senza retorica. Assolve il suo compito quasi nell'ombra, per non rubare spazio a ciò che è più importante nella trasmissione che conduce: il servizio giornalistico.

E a proposito di agenzia, mi piace ricordare spesso l'aneddoto che si racconta nell'ambito giornalistico. Un giornalista alle prime armi chiese al direttore di agenzia come dovesse scrivere. Questi gli rispose: "Scrivi come ti pare; quando hai finito, leva tutti gli aggettivi". Eh già, gli aggettivi sono un commento che il giornalista fa a quello che lui stesso dice, Ma lui non deve commentare. Molto proficuo fu ciò che raccomandò invece a me il direttore della Gazzetta di Modena, quando nel 1986 cominciai a collaborare mentre ero addetto stampa dell'Accademia Militare. "Nelle prime dieci righe ci deve stare tutta la notizia" disse. "E il commento?" chiesi io. "Il commento lascialo fare ai lettori" replicò.

Quando mi venne in mente l'idea di registrare al tribunale di Verona "Pagine di Difesa" e cominciare a pubblicare, cercai di dare alla rivista online la massima professionalità possibile. Così mi misi alla ricerca sul web di qualcosa che mi desse dei buoni consigli. Trovai "Come si scrive per il Sole 24 Ore", una manna di notizie utili per scrivere bene, in modo efficace, corretto e senza annoiare il lettore. Mi adeguai e cercai di indirizzare a questo modo di scrivere anche i miei collaboratori. Da allora credo di avere imparato e messo in pratica molti insegnamenti che mi sono stati dati da quella pagina: uso delle maiuscole, degli avverbi, degli aggettivi e tante altre cose.

Cose che ho anche cercato di riversare sugli ufficiali ai quali ho tenuto dei corsi di comunicazione e relazioni con la stampa: frequentatori del Corso superiore di stato maggiore interforze presso il Centro alti studi della Difesa a Roma e del Corso normale di stato maggiore presso l'Istituto di studi militari marittimi a Venezia. "Evitate di usare gli avverbi in ...mente: allungano la frase e non aggiungono niente a quello che volete dire" oppure "Mettete sempre il soggetto all'inizio della frase, come fanno gli inglesi, così chi vi legge o vi ascolta sa subito di che cosa state parlando" oppure "Evitate le frasi fatte, le frasi retoriche e le figure retoriche del discorso, perché correte il rischio di essere fraintesi". Tra gli altri, anche "Nello scrivere e nel parlare è importante essere intesi, ma ancora più importante non essere fraintesi".

Uno dei consigli che ancora mi fa piacere ricordare riguarda l'uso della iniziale maiuscola. Nel linguaggio burocratico sappiamo tutti che le iniziali maiuscole abbondano, molte volte quasi con il timore di offendere il superiore o la carica di cui si sta scrivendo. La grammatica della lingua italiana è molto chiara a tale proposito: l'iniziale maiuscola si usa con i nomi propri. E basta. Ci sono però dei casi in cui si usa, ma non ho trovato la regola da nessuna parte, così me la sono creata io: quella dell'antonomàsia. Ad esempio, esistono tante case bianche al mondo, ma quando scriviamo Casa Bianca sappiamo che ci riferiamo - per antonomàsia - alla residenza del presidente degli Stati Uniti. Lo stesso vale per Palazzo di Vetro. E anche per presidente del Consiglio. Perché? Perché quando si scrive Consiglio si intende consiglio dei ministri (in questo caso tutto minuscolo).

Mah! Mi sono lasciato un po' andare e ho dimenticato il punto dal quale ero partito: Maria Concetta Mattei. Eppure è stata proprio lei, con il suo linguaggio così asciutto ed efficace che mi ha fatto tornare alla mente che cosa significa "scrivere in modo efficace", per essere compresi e non essere fraintesi.

PS. Questo scritto lo leggerò e rileggerò più volte, sempre ponendomi la stessa domanda: "Sarò riuscito a farmi intendere e non fraintendere?".

domenica 12 febbraio 2012

Il giullare

Questo sketch di Enrico Brignano (fai clic su questo link per vederlo) è andato in onda su Italia 1 giovedì 9 febbraio di sera nel corso del programma "Le iene". Alla fine del suo sproloquio sul tema "neve" (a partire dal 7' 17'' nel video), ha detto: "Un'ultima cosa e poi vado via. Al ministro della Difesa: se l'Esercito Italiano per difendermi dalla neve vuole 60 euro al giorno a sordato, per difendermi dar nemico quanto vole? Oh, parlamose chiaro, sennò io m'arrendo subito. Eh, lo dico pe' voi!".

Preciso che a me questo giullare non ha mai fatto ridere. Il suo lo trovo un umorismo banale, da borgata romana, scontato, niente di originale. La notizia dei 70 euro/giorno (70, non 60) a soldato si era diramata senza controllo in tutto il web e una quantità di testate giornalistiche l'hanno pubblicata senza verificarla (errore gravissimo per chi fa giornalismo serio). La smentita è arrivata (poco puntuale, però) da parte del ministero della Difesa.

Ho scritto 'poco puntuale' perché è arrivata quando ormai la notizia si era diffusa a macchia d'olio. Ora, un ufficio stampa che funziona monìtora le agenzie e, nel caso in cui sia partita una notizia falsa, dirama immediatamente la smentita, proprio per evitare che il falso arrivi alla opinione pubblica o, quanto meno, arrivi assieme alla smentita. Questo non è avvenuto e ora, in barba alla smentita della Difesa, l'opinione pubblica è convinta che i militari si fanno pagare per intervenire in caso di pubbliche calamità.

La verità è un'altra. In primo luogo, eventuali compensazioni amministrative avvengono tra ministeri a consuntivo e non all'atto della esigenza. In secondo luogo, se ci saranno compensazioni, riguarderanno il carburante e le ore di straordinario del personale impiegato. Questo per il semplice motivo che la Difesa non ha un capitolo di bilancio al quale imputare le spese per pubbliche calamità.

E Brignano? Brignano, non volendo considerare quello che guadagna per le stronzate che dice in televisione, lo possiamo pure perdonare: è un ometto che per vivere deve far ridere la gente. L'Esercito Italiano no!

giovedì 2 febbraio 2012

Micia

(di Matteo Rossini)
Eri nata un giorno d'agosto del 1995 (noi ti abbiamo sempre festeggiato il 10) ma io ti avevo conosciuta solo nel 1997, insieme a Maria Vittoria. Te ne sei andata così, all'improvviso, alle prime ore di uno stupido 16 novembre del 2009.

Maria Vittoria ti aveva scelto perchè diceva fossi la più brutta della tua cucciolata e temeva che nessuno t'avrebbe adottato. Io ho sempre pensato che fossi la gatta più bella che avessi mai visto. Quando vi conosceste, tu e Maria Vittoria, lei aveva quindici anni e tu già un bel caratterino. Ti aveva chiamata De La Ray (come un tale Lothar, personaggio di chissà quale romanzo), ma tutti ti chiamavano semplicemente Micia, o Ratto o Toporatto. Giovedì scorso ti eri fatta male ad una zampina. "Stupida Gatta", avevo pensato. "Lo sai che non sei più una gattina, hai una certa età: mettersi a saltare così... ti ha inseguito il Pelosetto? O la Micetta?", ti avevo poi rimbrottato.

A dire il vero, quando quella sera, parcheggiando l'auto sotto casa, avevo visto la luce della tua stanza accesa e subito dopo Maria Vittoria che mi chiamava sul cellulare, temetti subito per la tua salute, chissà perché. Maria Vittoria poi però mi tranquillizzò: ti eri lussata la zampina e il veterinario ti stava steccando. Tornata a casa, ti preparammo così una bella cuccia in camera, con la tua gabbietta, un lenzuolo di flanella e la coperta di pile che ti piaceva tanto. Avevamo messo anche acqua e crocchini ben vicino, così che non ti disturbassi troppo. Quella sera la Micetta dormì con te, tenendoti calda, e non mi sembrava affatto che la compagnia ti fosse poi spiaciuta più di tanto.

"Stupida Gatta", continuavo a pensare l'indomani, vedendoti saltare sui mobili pur col tuo tutore, o sentendoti andare in giro col rumore ritmico di un personaggio di Stevenson. Sabato eri però stranamente buona. Ti facevi trovare buttata di qua e di là per casa. Io credevo facessi la scena e ti davo un po' fastidio, fino a che alla fine non protestavi energicamente: prima muovendoti le zampe, poi grattandoti la pancia ed infine infilandoti un dito nell'orecchio: "Mià!". "E allora non fare le scene!". Ti sentivo fredda ma mi preoccupavo solo che non riprendessi la tosse: "Guarda che se per fare le scenate ti becchi la tosse, questo giro lo sciroppo te lo prendi da sola!". Quella sera noi uscimmo con amici. Non ricordo dove dormisti tu.

Domenica non avevi proprio voglia e, giunta l'ora di cena, Maria Vittoria decise di coccolarti in una maniera speciale: aprì una scatoletta di tonno al naturale e si mise sul letto con te in grembo. Lei, per farti mangiare, ti teneva la ciotola proprio sotto il naso. Io pensavo che eri la gatta più paracula dell'universo. All'improvviso però la voce di Maria Vittoria si fece tremante: "Micia? Cosa c'hai Micia?". Io non capivo che cosa avesse visto o sentito: diceva solo che serravi le mascelle e che questo non era un bene. Decisi subito di portarti da veterinario, fosse solo per tranquillizzare Maria Vittoria che sicuramente non era nulla, seppure un po' scocciato per i 50 euro che si sarebbe preso per la chiamata "fuori orario".

Maria Vittoria ti ripose amorevolmente nella tua gabbietta, tenendola poi tutto il tempo in braccio quasi a non volersene staccare. Mentre guidavo ti sentivo protestare e volevo convincermi che fosse tutto sommato un buon segno: non t'era mai piaciuto andare in macchina! Il veterinario ci raggelò però poco dopo: "La situazione è molto seria, ha una grave ipotermia, le pupille sono dilatate, i muscoli sono deperiti, lo stato è precomatoso...". Oddìo... che gelo che scivolò giù per le mie vene, trasformandosi poi in calore allo stomaco, su fino alle guance e agli occhi. Non c'era tempo da aspettare, dovevi andare in terapia d'urgenza. Maria Vittoria tratteneva ormai a stento le lacrime, mentre aiutava il veterinario a riporti nella tua gabbietta. Lasciasti andare la tua testolina, mentre ti sollevavano: non lo scorderò mai. Maria Vittoria accarezzò un'ultima volta la tua zampina, mentre ti portavano via. Al veterinario che ci diceva "vi aggiorneremo tra 30, 45 minuti... se volete andare a casa...", io risposi per entrambi "Aspettiamo qui!".

Mentre consumavamo sigarette una dietro l'altra, Maria Vittoria singhiozzava: "Me la devono salvare, me la devono ridare tutta intera... ho passato metà della mia vita con lei!". Io pregavo, sussurravo a quel Dio che non mi sente mai, nel migliore dei modi che conoscevo, di salvarti - se fosse stato nei suoi piani - o che perlomeno tutto questo durasse il meno possibile.

Passata oramai quasi un'ora, il dottore ci raggiunse. Spiegò cosa stavano facendo, che la situazione era grave e che ora potevamo solo aspettare. "Vi chiamo se c'è un peggioramento, andate a casa...". Ora penso che ci aggrappammo, pur senza crederci, a quella tenue speranza per convincerci a rincasare, non potendo comunque fare nulla in clinica. Doveva essere mezza notte e mezza di quello stupido lunedì 16 novembre, quando - tornati a casa - ci accoccolammo sul divano, con una camomilla e i cellulari allineati sul tavolinetto.

Cominciammo ad attendere, guardando di tanto in tanto l'orologio, mentre la micetta non ci dava tregua: voleva a tutti i costi prendersi le coccole saltellando dalla spalla di uno a quella dell'altro, come proprio dei Thai. L'una di notte era passata da sette minuti, quando vidi lo schermo del cellulare illuminarsi: "Numero Privato". Ero pronto, ero ancora vestito e sarei corso lì da te in un attimo ma... "Purtroppo devo darvi una brutta notizia: la Micia non ce l'ha fatta...". Chiesi compostamente se fossimo dovuti egualmente tornare subito in clinica. "Assimilate pure la notizia con calma, ci vediamo domani, dopo le 10". "Va bene dottore, grazie. Ci vediamo domani, dopo le 10". Trentasette secondi esatti: un'eternità!

Chiusi il telefono e feci per girare la testa verso Maria Vittoria che ancora tratteneva il respiro, ma non ce la feci ad incrociare il suo sguardo. Scoppiai in un pianto furioso: ringhiavo e digrignavo i denti, avrei spaccato tutto! "Non è possibile, non è vero!" continuavo a ripetermi quasi andando in iperventilazione! La Micetta allora smise di fare le fusa e si acciambellò in un angolo del divano, il Pelosetto si rintanò nel suo buco sull'albero arrampica-gatti.

Maria Vittoria e io...

Sai, Micia? Quella è stata la notte più lunga della mia vita. Ho avuto notti insonni, ho visto cose terribili e ho anche sofferto tanto, ma non ho mai provato un dolore così grande, un vuoto così orribile e tremendo. Il senso di impotenza alimentato dal dolore mi riempiva di rabbia: avrei voluto poter fare qualcosa, qualsiasi cosa... e invece riuscivo solo a disperarmi, scusandomi tra i singhiozzi con Maria Vittoria per non esserle affatto di conforto. Non so come poté passare quella notte... tra lacrime e sigarette, sino a che un dormiveglia, sul fare dell'alba ci prese entrambi.

Mentre la nebbia del mattino saliva, allora ti sognai. Sognai che correvi lungo il corridoio sino alla porta d'ingresso, con la tua classica frenesia notturna e la tua eterna voglia di andare oltre le porte chiuse, sino ad arrestarti con gli occhi spalancati, di fronte al portone sbarrato. Allora io gridavo a Maria Vittoria: "Guarda c'è la Gatta, è tornata!", ma lei faceva appena in tempo ad affacciarsi, prima che tu facessi dietro-front e io ti corressi dietro, verso la tua stanza, verso il pouf che ti piaceva tanto. Pensai che non saresti potuta scappare di lì e finalmente ti avrei ripresa. Mi tuffai nella stanza subito dopo dietro di te, ma eri svanita. Eri finalmente riuscita ad andare oltre quella porta chiusa.

Fatta l'alba e giunto infine mestamente il giorno, ci recammo dal veterinario: per sentire di cosa te ne eri andata, se c'era da preoccuparsi per gli altri gatti, decidere dello "smaltimento" del tuo corpo (avevo offerto a Maria Vittoria di seppelirlo nel giardino dei miei, ma lei che è sempre stata coerente mi aveva risposto: "E perchè? Non c'è nulla li dentro..."), recuperare la tua gabbietta...

Ecco: portare verso la macchina la tua gabbietta oramai vuota fu davvero la parte peggiore. Maria Vittoria passò il resto della giornata abbracciata alla coperta di pile che ti piaceva tanto, nonostante l'odore pungente che vi avevi lasciato sopra. C'era un ciuffo del tuo bel mantello a squame di tartaruga, di buona gatta europea, e Maria Vittoria continuava ad accarezzarlo.

Quando infine la sera, dopo essere tornati un'ennesima volta dal veterinario per riceve legittime assicurazioni circa il fastidioso raffreddore del Pelosetto, ci decidemmo a mettere da lavare la tua copertina di pile, avevamo già messo da parte il tuo ciuffetto di peli. Insieme ad esso e ad un paio di crocchini trovati nella gabbietta, avevamo deciso di conservare anche un'unghietta che avevi lasciato sul tuo pouf: stupida Gatta, proprio non ce la facevi a non fartele là sopra, eh?

Sai, Micia? Mi ero definitivamente innamorato di te quando avevi deciso, dopo una lunga concorrenza per Maria Vittoria, che in fin dei conti anche io avrei potuto essere il tuo umano domestico. Credo che l'aver passato tanti mesi da soli io e te, mentre Maria Vittoria a Fano preparava il nostro ritorno a casa, ci avvicinò allora più di ogni altra esperienza: mi avevi accolto! I vuoto che ci hai lasciato dentro è enorme e nessun altro gatto potrà mai colmarlo. Non è quindi un dolore che passerà, solo uno a cui ci potremo abituare. Gli altri due gatti si danno un gran da fare in attività inutili e sbagliate, ma la casa è così silenziosa e triste senza di te. Il fatto è che tu eri ovunque!

Acciambellata tra me e Maria Vittoria brontolavi quando mi alzavo per andare a fare il caffè, ma ti prendevi le prime coccole del mattino quando poi mi reinfilavo sotto le coperte con la mia tazzona fumante. Mi borbottavi dalla lavatrice mentre facevo la barba per andare poi davanti alla porta del bagno di Maria Vittoria a protestare perché la trovavi chiusa. Correvi per il corridoio nell'andirivieni del mattino inseguita dal Pelosetto che ogni tanto riusciva pure a prenderti. Venivi a salutarci fino al portone e ci aspettavi poi lì dietro quando tornavamo, magari tentando di scappare verso la soffitta se se ne fosse presentata l'opportunità.

Ti arrampicavi sulla spalla di Maria Vittoria, magari mentre lei tentava di lavorare al computer, in attesa che tornassi a casa anche io e quando poi infine arrivavo cominciavi a raccontarmi la tua giornata e a rimproverarmi della prolungata assenza. Mi guardavi mentre recuperavo i vestiti di casa, ancora caldi della tua fresca ronfata, e smettevo quelli del lavoro. Ti mettevi sul tavolo della cucina mentre preparavamo la cena in attesa di rimediare - con le buone o le cattive - qualche prelibatezza riservata a te e a te soltanto, salvo poi tentare qualche furto quando portavamo i piatti in sala; ti sistemavi sulla mia pancia dopo cena e mi guardavi con i tuoi occhioni giganti mentre guardavo un po' di tv; ti godevi i posti caldi lasciati sul divano salvo poi raggiungerci infine nel letto sino a che una nuova giornata sarebbe cominciata.

La prima mattina senza di te ho pensato che ora non ci sarebbero più stati giorni felici: senza il tuo continuo parlottare, le tue fusa discrete, il tuo accogliere e valutare ogni ospite, i tuoi rotolini al primo raggio di sole. Credo che torneranno giorni felici, che mi abituerò a sopportare la tua assenza. Ma credo anche che passerò il resto della mia vita nell'attesa di reincontrarti: perché più di ogni religione e di ogni dio, tu mi hai insegnato che davvero c'è molto più di quanto vediamo, che non è tutto qui. Quando sentivi con anche dieci minuti d'anticipo che Maria Vittoria stava tornando a casa e ti mettevi ad attenderla all'ingresso, o quando sbarravi gli occhi verso un punto vuoto della stanza per poi scappare via terrorizzata, o quando capivi subito se eravamo tristi o stavamo poco bene.

Avrei voluto che tu un giorno potessi vedere i nostri figli e credo che, in un qualche modo, quel giorno sarai a fianco alla culla, ad annusare socchiudendo gli occhi col tuo solito fare curioso. Credo che mi guarderai e mormomando appena approverai, assicurandomi che veglierai su di loro. Ho pensato molto, in questo poco tempo. Ho tentato di gestire la cosa come meglio so fare: razionalizzando e scrivendo. Ho tentato ad esempio di capire se avessi potuto accorgermi di sintomi rivelatori. Bevevi tanto, ma credevo fossero i crocchini diuretici anti-struvite.

Vomitavi spesso, ma credevo fosse dovuto alla tua maledetta ossessione per i rubinetti aperti, sotto i quali passavi minuti e minuti ora a leccare l'acqua ora fare osservazioni scientifiche sul formarsi delle bollicine (avevamo disseminato ogni lavandino di una ciotola da riempire al momento, per evitare di sprecare acqua: lunedì sera le ho tolte tutte, dato che nessun'altro gatto di casa ha la tua stessa passione per l'acqua corrente). Ieri mi sono documentato: forse la fissa che tanto ti rimproveravo era un sintomo di un linfosarcoma.

Ho continuato a pensare. Non avrei potuto percepire le diminuzioni delle masse muscolari: piccoli cambiamenti protratti nel tempo divengono impercettibili al cervello umano... e poi tu hai sempre avuto la pellle di un gatto più grande! La lussazione della zampina era una conseguenza del ridotto tono muscolare, ma non ci abbiamo dato peso, dato che già in passato ti era successo di slogarti saltando. La tua passione per l'acqua corrente non mi ha fatto percepire l'aumento della sete e credevo vomitassi perché soffiavi al Pelosetto dopo aver mangiato o bevuto.

Lo strano atteggiamento che avevi sabato pensavo fosse una delle ripicche che ti erano solite. Avevo però da tempo una presentimento nefasto e forse avrei dovuto dargli ascolto. Forse. O forse è stato meglio così, forse era quello che tu pure volevi. Non hai mai dato nulla a vedere, non ci hai mai arrecato disturbo. Ci hai regalato felicità fino a che hai potuto, sopportando e attendendo che un nuovo gatto entrasse in casa. Quando è arrivata Minù, la Micetta, non sei stata scontrosa come eri stata col Pelosetto. L'hai annusata, l'hai squadrata. L'hai tollerata e l'hai messa alla prova. Un giorno ti ho visto mentre sembrava - col senno del poi - passassi le consegne ai tuoi due compagni pelosi.

Quando hai reputato fosse il momento, hai smesso di combattere e ti sei lasciata andare. Senza disturbare. Hai passato le tue ultime ore in serenità, con noi, mangiando tonno. Ora so che quando il veterinario ti ha portata via e ho visto che lasciavi andare la tua testolina, già guardavi oltre, a una luce sotto il calore della quale potrai continuare a fare i rotolini, sino a che infine non ci ritroveremo.

Ciao Micia: tu sei la micia più bella!

mercoledì 1 febbraio 2012

La giovinezza

La giovinezza non è un periodo della vita, essa è uno stato dello spirito, un effetto della volontà, una qualità dell'immaginazione, un'intensità emotiva, una vittoria del coraggio sulla timidezza, del gusto dell'avventura sulla vita comoda.

Non si diventa vecchi per aver vissuto un certo numero di anni; si diventa vecchi perché si è abbandonato il nostro ideale. Gli anni aggrinziscono la pelle, la rinuncia al nostro ideale aggrinzisce l'anima.

Le preoccupazioni, le incertezze, i timori, i dispiaceri, sono nemici che lentamente ci fanno piegare verso la terra e diventare polvere prima della morte. Giovane è colui che si stupisce e si meraviglia, che si domanda come un ragazzo insaziabile "e dopo?", che sfida gli avvenimenti e trova la gioia al gioco della vita.

Voi siete così giovani come la vostra fede, così vecchi come la vostra incertezza. Così giovani come la vostra fiducia in voi stessi, così vecchi come il vostro scoramento. Voi resterete giovani fino a quando resterete ricettivi. Ricettivi di tutto ciò che è bello, buono e grande. Ricettivi al messaggio della natura, dell'uomo e dell'infinito.

Se un giorno il vostro cuore dovesse essere mosso dal pessimismo e corroso dal cinismo, possa Dio avere pietà della vostra anima di vecchi.

Generale Douglas Mac Arthur ai cadetti di West Point, 1945

sabato 28 gennaio 2012

Cittadino del mondo

Il link in basso porta alla prima pagina del "Giornale" che il 27 gennaio apre con il titolo "A noi Schettino a voi Auschwitz". Il fondo di Alessandro Sallusti si legge bene, anche se è in caratteri piccoli. Certo, non è una risposta molto elegante, ma nemmeno l'articolo di Jan Fleischauer sul settimanale tedesco "Der Spiegel" è un esempio di buon giornalismo. Sorprende soprattutto il fatto che l'autore del pezzo affermi che il popolo tedesco è una razza.

A NOI SCHETTINO A VOI AUSCHWITZ

Accidenti, non lo sapevo! So, invece, che esiste la razza del pastore tedesco, del pastore maremmano, del gatto persiano, eccetera. Ero convinto che il periodo in cui si distinguevano i popoli in razze fosse finito con la fine della Seconda guerra mondiale e la fine del nazismo e fascismo. Ora la "moda" è cambiata: i popoli si suddividono in etnie, non in razze. Ma forse Fleischauer intendeva dire che il popolo germanico è caratterizzato da un'unica etnia di grandi tradizioni. Forse.

Come esperienza personale, posso dire che non ho avuto questa sensazione. Nel 2003, in occasione del Salone dell'automobile, andai a Francoforte. Giuro che fui stupefatto dalla scarsità di "ariani" che incontrai in quei tre giorni di permanenza. Incontrai, invece, persone di tutte le etnie, tant'è che quando tornai a casa commentai con gli amici: "Se fosse vivo oggi Hitler e andasse a Francoforte, si suiciderebbe a vedere che i tedeschi non sono più quelli che lui sognava.

Per documentarmi meglio, però, sono andato su Wikipedia ed ecco quello che ho letto: "A dicembre 2004 si stimava in circa sette milioni il numero di cittadini stranieri registrati in Germania, e ben il 19% della popolazione del paese era formata da residenti di discendenza straniera o parzialmente straniera. I giovani hanno maggiori probabilità di essere di discendenza straniera rispetto alla popolazione più anziana, 30% dei tedeschi con meno di 15 anni hanno almeno uno dei genitori nati all'estero. Nelle grandi città il 60% dei bambini di età compresa tra 0 e 5 anni hanno almeno uno dei genitori nati all'estero". Insomma, in sintesi un cittadino tedesco su cinque non ha origini tedesche.

Egregio Herr Fleischauer, dopo centinaia di anni che i popoli europei si sono scannati gli uni gli altri con guerre continue che sono durate anche fino a trent'anni, da qualche decennio stiamo cercando pacificamente di far diventare l'Europa una sola nazione. E' il caso ora di fare ricorso ai soliti stereotipi dell'italiano fatto così, del francese fatto colì, dell'inglese... eccetera? O forse è meglio cercare di trovare le cose che ci uniscono e insieme costruire una Europa nella quale si evitino tragedie come quella che ci ha fatto celebrare il 27 gennaio come giornata della Memoria?

L'Italia è un miscuglio di etnie: arabi, normanni, greci, fenici, ecc. Ma siamo italiani ed europei. Il mio cognome è Bernardi, dal tedesco "bear hard", orso vigoroso e la mia tribù varcò le alpi provenendo dalla Germania più di mille anni fa. Come vede, potrei vantare le stesse sue origini, ma sono nato a Napoli. E sono orgoglioso di essere napoletano, così come sono orgoglioso di essere italiano, così come sono orgoglioso di essere un cittadino europeo, così come sono orgoglioso di essere un cittadino del mondo. Il mio mondo, senza distinzioni di etnie, nazionalità, colore della pelle, credo religioso.

mercoledì 18 gennaio 2012

Onore

Ieri sera a Radio Londra, parlando della disgrazia di nave Concordia, Giuliano Ferrara ha detto parole che - per una volta - approvo completamente. In particolare una parola: Onore. Alle parole di Ferrara aggiungo che a mio avviso l'Italia marinara, direi anche l'Italia tutta, ha perso l'Onore nei confronti del mondo. Il comportamento di un capitano di nave sopraffatto dalla paura ha cancellato in una notte decenni di atti di eroismo in terra, in mare e in aria. Sappiamo bene che cosa farebbe un comandante giapponese nella stessa situazione. Non posso pretenderlo da parte di Schettino né lo auspico. Ma che lui presenti le sue scuse all'Italia intera questo sì. Ci ha disonorati; faccia allora un atto di pentimento e chieda scusa a tutti gli italiani.

sabato 7 gennaio 2012

Sei gennaio

Oggi sono 40 anni dalla morte di mio nonno Romolo. I genitori di mio padre non li conobbi: nonna Carmela morì nel 1922, quando mio padre aveva nove anni; nonno Giovanni nel 1943 e mio padre era prigioniero in India. Dei genitori di mamma, nonna Filomena morì che ero troppo piccolo per conservarne il ricordo. Così mi rimase solo nonno Romolo, che accompagnò con la sua figura di uomo anziano e saggio prima la mia infanzia poi l'adolescenza.

Era giovedì 6 gennaio 1972; frequentavo la Scuola di applicazione di artiglieria a Torino, ma ero a Roma dai miei per le vacanze natalizie. Il giorno dopo sarei dovuto rientrare a Torino. La mattina il nonno aveva lavorato ai suoi conti di commercialista; poi il pranzo. Nel pomeriggio si mise a riposare, ma non si sentì bene, così chiamò mamma; poi anche me. Si spense come si spegne una candela: ultimo anelito, ultimo tremore di fiamma.

72. Nonno

Il nonno si addormentò
nel letto della cameretta
Aprì la finestra in alto
lei
la figlia
per lasciarlo andare
finalmente libero
Ma non se ne andò
Forse un attimo
solo un attimo
a salutare la sposa
che riposava da tanto
Non se ne andò
La sua presenza
da quella adolescenza
appena terminata
a questa maturità
indicarmi la strada
cancellarmi le impronte sbagliate
prendermi per mano
confortarmi